L’argomento del perdono è stato spesso oggetto di riflessioni dal punto di vista religioso e meno abitualmente da quello psicologico. Una certa formazione ed educazione hanno insistito sulla necessità di perdonare i nemici e coloro che ci offendono come facente parte della morale cristiana. In recenti studi anche le scienze umane stanno riscoprendo, indagando e valorizzando il processo del perdono.
Si può dare quasi per assodato che ciascun individuo abbia subìto torti, ferite o perfino traumi. Rendersi conto di soffrire a causa di questi è un primo passo di guarigione. Superare il diniego del dolore e delle emozioni percepite come vergognose apre la porta alla rielaborazione e al processo del perdono.
La reazione di dolore, rabbia o distacco che può sorgere spontanea, dopo aver subìto un’offesa o un torto, è comprensibile e richiede un tempo per essere guarita e rielaborata; un tempo che spesso l’individuo non può decidere a priori, perché comporta sia un lavoro attivo e consapevole sia anche un altrettanto importante lavoro inconscio di accettazione. L’emozione – intesa come reazione a qualcosa che accade – non è in sè “buona” o “cattiva” e non ha valenza morale (per cui provare una certa emozione percepita “negativa” non si configura in una colpa).
Si può invece fare un certo ragionamento sull’atteggiamento del risentimento. Il risentimento sembra essere il frutto di una rabbia coltivata, rimuginata e alimentata. Se la reazione emotiva immediata è un processo che – in linea di principio – non implica la nostra libertà, l’atteggiamento del risentimento può diventare una scelta, un atteggiamento in cui si gioca almeno una certa percentuale della nostra libertà e su cui, quindi, si può intervenire.
Perché a volte si coltiva il risentimento? Cosa ci si illude di guadagnare? Coltivando il risentimento spesso ci si illude di ottenere giustizia, di fare capire a una persona che ha sbagliato, di farla pentire, di farla in qualche modo soffrire. Il risentimento contiene in sé un certo grado di aggressività e anche la speranza di poter cambiare un’altra persona o una situazione non accettata. Sembra apparire, questa, un’illusione dato che la maggior parte delle altre persone non soffre per il nostro risentimento.
Coltivando il risentimento si assume il ruolo della vittima, si alimenta il vittimismo. idealizzando la nostra ferita, facciamo di essa il centro del mondo. È come se chiedessimo al mondo di fermarsi perché noi soffriamo. Forse vorremmo essere riconosciuti almeno per la grandezza del nostro dolore, e questo ci illude, in qualche modo, di valere qualcosa, se non altro, per il dolore che soffriamo (aspetto narcisistico)
Un passo importante sta nel comprendere che il risentimento fa male soltanto a chi lo coltiva, e a nessun altro. L’odio alimentato distrugge solamente chi lo cova, nessun altro. Gli altri, così come il mondo, vanno avanti e probabilmente non soffrono perché noi soffriamo. Il risentimento non fa altro che lacerare chi lo prova. L’ostilità tiene ancorati alle negatività. Quando ci rifiutiamo di perdonare semplicemente paghiamo un prezzo troppo alto. Coltivare risentimenti equivale a farsi corrodere dentro. Riportare continuamente alla mente vecchie ferite e continuare ad assumere il ruolo di vittima ci deruba di tutto ciò che è prezioso. È autodistruttivo. E ci rimettiamo solo noi stessi. In effetti appare come un rivolgimento contro sé stessi di un’aggressività inizialmente eterodiretta, che può alimentare anche un processo depressivo e rimuginativo.
In questa ottica il processo del perdono può risultare una medicina innanzitutto per sé stessi, una guarigione e un vantaggio per il proprio sé. Il perdono in realtà conviene, ed è terapeutico. Si inizia a prendere in considerazione l’ipotesi del perdono quando si capisce che la continua rivendicazione di “giustizia” (più io meno consapevole) che alimenta il risentimento comporta un prezzo troppo alto per il sé: il sacrificio della propria serenità.
Occorre però capire cosa non sia il perdono: perdono non significa dimenticare il male subìto. Perdonare non significa non ricordare più. Non è quindi negare o rimuovere quello che è successo e nemmeno banalizzarlo o sminuirlo (è normale quindi che il ricordo del male subìto generi ancora un certo dolore pur essendo una persona dentro il processo del perdono). Perdono non significa neppure ritornare necessariamente in relazione con chi ci ha ferito. Possiamo aver perdonato una persona ma scegliere liberamente di non avere più relazioni con essa, per tutelare noi stessi. Il perdono non è quindi un “regalo” che si fa a un’altra persona, ma un regalo che si fa a anzitutto a sé stessi, una medicina per sé stessi. Il perdono è anche indipendente dal fatto che una persona esterna ce lo chieda, se lo meriti o lo accetti. È una scelta personale. L’altra persona può perfino non sapere che noi siamo dentro un processo di perdono.
Il perdono non è l’atto di un momento ma un processo. Cioè un lavoro che si distende nel tempo. Moralmente l’importante è essere dentro il processo, non essere necessariamente arrivati in fondo. Il processo quindi comprende fasi come: il rendersi conto di avere una ferita e di soffrirne, il rendersi conto di non aver ancora perdonato, il rendersi conto di provare rabbia, il provare a negoziare, il combattimento, la resa, la tristezza, l’accettazione e la serenità finale. L’importante è essere dentro il processo, mirare alla meta che è l’accettazione e la serenità.
Chi e che cosa perdonare. Solitamente è facile pensare a qualche persona che ci ha fatto soffrire, ma ci sono anche altre situazioni o persone, a cui di solito non si pensa, a cui si può rivolgere il perdono. Possiamo perdonare:
– La vita, per il fatto di non essere quella che volevamo. Perché diversa da come pensavamo, desideravamo o progettavamo. Possiamo perdonare la nostra vita, che, seppur diversa da quella che volevamo, può contenere ancora qualcosa di buono.
– La nostra storia e le ferite e i traumi che ci accompagnano (fisici, psicologici, emotivi, relazionali), i nostri fallimenti, le nostre cadute, e il dolore che ne è conseguito.
– Le nostre emozioni, il nostro dolore, la nostra rabbia, la nostra tristezza.
– Noi stessi, per non esser riusciti sempre a essere come sentivamo di voler o dover essere. Il nostro corpo per non essere quel che vorremmo, i nostri limiti e bisogni, il nostro carattere. Abbiamo bisogno di perdonarci.
– Dio: perfino lui, di cui a volte abbiamo di lui un’immagine sbagliata (colui che ci punisce, che ci mette alla prova, che ci ostacola…).
– Gli altri, che, esattamente come noi, a volte hanno fatto del male, più o meno volontariamente, più o meno consapevolmente. È bene notare che le persone che più ci feriscono sono quelle più vicine a noi (spesso i famigliari) perché sono quelle su cui abbiamo più aspettative e che – conoscendoci – possono ferirci di più. Chi ci fa più male sono le persone intime.
Per capire meglio cosa sia il perdono si può pensare al termine riconciliazione. In una realtà storica ferita dal peccato, l’accettazione comporta sempre anche un aspetto di perdono, cioè un aspetto di lutto. Occorre riconciliarsi con sé stessi, con la vita, per trovare la serenità. Vivere riconciliati. Il perdono comporta un lutto per quello che poteva essere e non è stato, un abbandono delle proprie aspettative che è a tutti gli effetti un lutto.
Spesso ci si domanda “Come si fa a perdonare?” Il perdono non è da “creare” in noi stessi. Non nasce in noi stessi dal nulla. Il perdono va riconosciuto già presente in noi stessi come perdono ricevuto. Il perdono è da condividere, non da inventare. Riconoscere il fatto che noi per primi siamo già stati perdonati tante volte, accettati tante volte, amati anche dopo aver sbagliato, non condannati dopo aver peccato. E che quindi abbiamo già dentro il perdono, che dobbiamo condividere e non inventare.
È fondamentale riconoscere quante volte noi per primi – più o meno consapevolmente – abbiamo ferito qualcuno, eppure siamo stati amati ancora. Più diventiamo consapevoli di questo fatto e più possiamo condividere questo perdono (Mt 18, 21-35). Neanche noi siamo innocenti, eppure siamo amati. Per cui il perdono non va “creato” ma condiviso. C’è già uno sguardo buono sulla nostra vita che dobbiamo scoprire. Uscire dal nostro sguardo autoreferenziale su di noi stessi (mai pienamente positivo) per assumere questo sguardo “altro” e buono. Se non vogliamo entrare nel processo del perdono forse è perché non abbiamo ancora riconosciuto la presenza di questo sguardo, il fatto di essere già noi stessi perdonati.
Un allenamento al processo del perdono può essere rappresentato dal praticare la gratitudine. Cioè imparare a essere grati di tutto il buono presente nella nostra vita, nonostante noi stessi, gli altri e la vita non siano quelli che volevamo. Allenare la gratitudine è l’opposto del risentimento.
È bene quindi ricordare che il perdono è un regalo che si fa a sé stessi. È un atteggiamento da coltivare in generale, verso noi stessi, verso la vita, verso gli altri, verso Dio; è un processo in cui ci si deve allenare, da coltivare. Allenandosi al perdono il premio sarà la serenità.